Il Pakistan, ancora oggi, è uno dei Paesi più conservatori al mondo e rientra anche tra quelli in cui le donne trovano molte difficoltà a vivere una “vita normale”, senza, per esempio, avere la paura di trovarsi da sole a camminare per strada, sentendosi costantemente nel mirino di qualcuno che, in preda ai suoi più bassi istinti, potrebbe pensare di far loro del male, rapirle o addirittura violentarle.

Risalgono a due mesi fa le affermazioni del Primo Ministro del Pakistan, Imran Khan, riguardo a uno dei tanti problemi molto diffusi nel Paese, ossia i molteplici casi di stupro, che, quasi ogni giorno, diventano tristi echi che ci raggiungono attraverso i media internazionali e che puntualmente ci costringono, volenti o nolenti, a creare un’immagine inquietante di questo grande e contrastato Paese.

Le affermazioni del Primo Ministro Khan, rilasciate alcuni mesi fa nel corso di un talk show politico, si riferivano ai dati di un’indagine del 2020, secondo cui ogni anno in Pakistan vengono registrati circa 5.000 casi di stupro.

Tuttavia, solo il 5% degli accusati riceve una giusta punizione. Secondo Khan, questo fenomeno sarebbe attribuibile alla “cattiva condotta” che anche le donne pakistane sembrano adottare, nonché alla diminuzione del numero di donne che seguono la “Purdah”, un sistema che prevede la segregazione dei sessi e un abbigliamento femminile volto a coprire il più possibile il corpo. Infatti, l’accessorio più usato a tale scopo è il burqa.

Le parole del Primo Ministro Khan hanno suscitato forti polemiche, poiché molte donne si sono sentite direttamente coinvolte e interpellate dalle sue dichiarazioni. Espresse in questi termini, le affermazioni del Premier hanno generato numerosi fraintendimenti, dando adito a diverse interpretazioni.

Infatti, è davvero difficile accettare l’idea che, se ancora oggi una donna ha la consapevolezza di non sentirsi al sicuro, per esempio mentre cammina da sola per strada in pieno giorno, ciò possa essere attribuito unicamente al fatto di appartenere biologicamente al sesso femminile, anziché all’altro. Perché, invece, non dire la verità? La questione è fortemente riconducibile a un tipo di pensiero comune tra gli uomini, radicato nei secoli, che ha contribuito a creare modelli familiari e sociali i cui effetti si manifestano direttamente attraverso vicende come queste, talvolta in maniera inevitabile.

Le storie di donne vittime di abusi, ogni giorno, sono innumerevoli. Se ancora oggi la donna in Pakistan è fortemente condizionata da un sistema patriarcale, anche l’uomo si trova a esserlo, per esempio dal matriarcato, dove è la madre a scegliere quella che sarà la futura moglie del figlio, combinando il matrimonio. Così, in entrambi i casi, le vite future dei figli finiscono comunque per essere segnate dalle volontà della famiglia.

Ma se queste tradizioni familiari trovassero, seppur in maniera non giustificata, la loro ragione di esistere in un sistema culturale fortemente radicato nell’ambiente in cui si nasce e si cresce, diventa però difficile accettare come, anche dopo un allontanamento dalla terra natia, in un paese con una cultura diversa, certi tipi di atteggiamenti e mentalità possano rimanere intatti e, in alcuni casi, persino rafforzarsi.

È agosto del 2006 quando Hina Saleem, una giovane ragazza pakistana, residente da anni in Italia, viene attirata con l’inganno a casa del padre a Sarezzo. Ad attenderla, infatti, c’erano dei parenti e, proprio nel luogo che avrebbe dovuto essere il più sicuro al mondo, viene consumato un efferato omicidio: a Hina vengono inferte più di venti coltellate e, una volta sgozzata, il corpo viene sepolto nel giardino di casa, con la premura da parte degli aguzzini di orientare il capo del corpo senza vita in direzione della Mecca.

Hina voleva essere libera di amare un uomo italiano e di vestirsi nel modo in cui si sentiva meglio con se stessa, e questo è stato il prezzo che ha dovuto pagare.

Risale, invece, all’aprile del 2018 la vicenda di Sana Cheema, un’altra giovane ragazza pakistana di 26 anni che, dopo aver vissuto sin da piccola a Brescia con la sua famiglia, viene portata anch’essa con l’inganno nella sua terra d’origine, il Gujarat, senza però fare mai più ritorno.

Infatti, il motivo che aveva scatenato l’indignazione e la furia omicida della famiglia sarebbe stato il fatto che la giovane ragazza, già indipendente economicamente, avesse da qualche anno una relazione sentimentale con un giovane italiano e, nei loro progetti, vi fosse anche la volontà di convolare a nozze. La famiglia pare non potesse accettare tutto ciò. Infatti, già il solo fatto che la ragazza avesse adottato da tempo un vestiario occidentale era considerato più che un oltraggio, dal momento che, nella cultura di riferimento, le donne sono ritenute rispettabili esclusivamente dentro le mura domestiche o, all’esterno, solo se scortate da altri membri della famiglia, o addirittura coperte dall’immancabile burqa, tanto caro agli uomini quanto alle donne, che vi trovano una forma di protezione contro sguardi indiscreti, anche se nemmeno questo offre garanzia di evitare possibili situazioni di pericolo.

C’è, invece, tuttora molta apprensione per un altro caso che potrebbe ripercorrere il finale delle storie precedenti. Infatti, ormai, da più di un mese non si hanno notizie riguardo a Saman Abbas, una giovane ragazza pakistana di 18 anni, residente a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, che, dopo l’annuncio da parte della famiglia della volontà di combinare un matrimonio con un suo cugino in Pakistan, aveva denunciato il fatto mentre era ancora minorenne, venendo presa in custodia dai servizi sociali.

Ad aprile di quest’anno, la ragazza, di sua volontà, è tornata a casa della famiglia, forse per recuperare alcuni documenti prima di partire per raggiungere il suo fidanzato in Belgio. La famiglia non ha accettato la volontà della figlia, così i genitori l’hanno consegnata a uno zio, che si è trasformato nel suo boia.

Un video inquietante, postato dal padre su un social e poi subito rimosso, mostra alcuni uomini che intonano litanie funebri, con aria contrita, battendosi il petto, al centro un tavolo, ma senza il defunto, solo un lenzuolo bordeaux.

Ci sono anche messaggi dello zio in cui, in una chat indirizzata alla sua fidanzata, afferma di “aver fatto un buon lavoro”. Anche il fratello di Saman ha confessato che lo zio, da tutti temuto, è stato il colpevole dell’omicidio, ma ha anche rivelato di essere stato minacciato da lui affinché non parlasse, pena la morte del resto della famiglia.

Quelli che fino a pochi giorni fa erano solo indizi, purtroppo, ora sono diventati prove in attesa del ritrovamento del corpo della giovane ragazza.

Quest’ultima storia di violenza, ancora una volta, ci costringe a confrontarci con un Islam di tipo fondamentalista. La protagonista è una madre che, nei confronti della figlia, avrebbe dovuto nutrire un amore incondizionato. Un amore al di sopra di ogni cosa, essendo stata lei stessa a generarla.

Eppure, rimane ferma nel proposito di eseguire in maniera scrupolosa tutti i dettami che la religione, l’onore e le tradizioni della famiglia impongono. Anche a prezzo di sacrificare la sua unica figlia.

Stupisce ancora di più, inoltre, come proprio la religione islamica, che da sempre si erge a modello di perfezione e salvezza per l’umanità, possa anche diventare il principale strumento di angherie e soprusi nei confronti delle donne.

Più volte, sono gli stessi uomini musulmani a ribadire come le donne siano oggetto di rispetto e cure. Infatti, quando vengono interpellati a riguardo, sono loro stessi ad affermare che le donne vengono trattate da “regine”.

Ci saranno delle eccezioni, con storie che hanno un lieto fine. Tuttavia, queste affermazioni, oggi, si scontrano fortemente con le vicende citate in precedenza.

Il pensiero espresso dal Primo Ministro Khan, riguardo al fatto che i nuovi costumi corrotti, con riferimento anche al cinema di Bollywood, siano, a parer suo, legati alla storia degli stupri e di altre forme di violenza, non può nascondere la realtà secondo cui molti uomini, già prima della nascita e della diffusione di questi nuovi modelli sociali e culturali, si erano resi protagonisti di simili misfatti. L’origine di tali comportamenti, invece, potrebbe essere ricondotta a un’immagine distorta della donna, strettamente legata al tabù riguardante la tematica del sesso.

Così, quando a un giovane ragazzo non viene neanche concessa la possibilità di avere incontri, seppur innocenti, con una ragazza, la sua fantasia, se trova nel soggetto specifico una naturale inclinazione, può prendere libero sfogo, tramutando un sentimento spontaneo e amorevole verso una donna in pulsioni violente e degradanti.

Ora, le storie di Hina, Sana, Saman e quella di ogni altra vittima, che ogni giorno e in ogni parte del mondo si aggiunge a questo elenco, devono farci riflettere sul fatto che, ancora oggi, le donne sono sempre coloro a cui non si perdona il desiderio di essere libere e su come, ancora, l’uso della violenza, anche quella più spietata, venga considerato una punizione che queste donne meriterebbero per tale dispetto.

Riconoscersi solidali nella lotta contro la violenza deve diventare, il più possibile, una missione quotidiana e un impegno costante a ribellarsi, perché non si può accettare come una verità incontrovertibile l’idea che sia responsabilità delle donne diventare vittime dei maltrattamenti di cui quotidianamente sentiamo notizia.

Arriverà un giorno in cui tutte le donne, in Pakistan e in Italia, si sentiranno sicure e non più accompagnate dalla paura di esprimere se stesse e i loro sogni. Solo allora ci si ritroverà pronti a riscrivere un nuovo capitolo della loro storia. Ma ancora oggi non è così, e questo sogno, purtroppo, è ancora lontano dal diventare realtà.

Miriam Millaci

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