Erano all’incirca le 8:45 del 21 settembre 1990 ed il giudice Rosario Livatino, alla guida della sua Ford Fiesta amaranto, stava percorrendo la strada statale 640 Caltanissetta-Agrigento, che lo avrebbe portato al Tribunale di Agrigento, quando, con un infame agguato, venne trucidato a colpi di arma da fuoco per mano di quattro killer appartenenti alla “stidda agrigentina”, un’organizzazione mafiosa che, a quel tempo, era in competizione con “Cosa Nostra”.

Quest’anno ricorre il 34° anniversario della morte del “Giudice ragazzino”, titolo del libro di Nando dalla Chiesa, scritto in risposta alla poco lusinghiera definizione con cui l’allora Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, aveva chiamato i “giudici ragazzini”, quei giovani magistrati ai quali il Consiglio superiore della Magistratura affidava indagini troppo complesse per chi non aveva ancora maturato la necessaria esperienza per ricoprire quel ruolo.

La storia del giudice Livatino, prima ancora di essere quella di un brillante magistrato, è la storia di un uomo che, nel corso della sua seppur breve ma intensa vita, aveva compiuto un significativo e profondo cammino di fede. Era sempre lo stesso giudice che, ogni mattina, prima di entrare in tribunale, si recava nella Chiesa di San Giuseppe per raccogliersi in preghiera.

Soltanto dopo la sua morte, il sacerdote di quella stessa chiesa sarà in grado di riconoscere quel giovane che, sempre in disparte e in silenzio, occupava le ultime file della chiesa.

Rosario Angelo Livatino è stato un brillante magistrato, ma ancor prima è stato un figlio premuroso e amorevole, poi un compagno di scuola sempre disponibile ed infine un giovane uomo che, ispirato da un ideale altissimo di giustizia, diventa consapevole di poter sacrificare perfino la propria vita per esso.

Nel corso delle sue giornate, il giudice era solito annotare nel suo diario alcuni pensieri, alla cui chiusura scriveva sempre una misteriosa sigla: “STD”. Inizialmente, sembra difficile interpretarne il significato, ma si scopre poi che è l’acronimo della frase “Sub Tutela Dei”. La stessa sigla si trova anche alla fine della sua tesi di laurea in Giurisprudenza.

Il 9 maggio 2021, il “giudice ragazzino” viene proclamato beato nella Chiesa di San Gerlando ad Agrigento dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi.

Degne di nota sono due conferenze che il giudice aveva tenuto a Canicattì: “Il ruolo del giudice nella società che cambia” (1984) e “Fede e diritto” (1986). In entrambe emerge un’approfondita conoscenza in ambito teologico, che gli permette di affrontare delicati argomenti come l’eutanasia, la fecondazione eterologa e l’obiezione di coscienza.

L’esempio di questo “martire della giustizia e, indirettamente, della fede”, come lo definì San Giovanni Paolo II, rimane un monito e uno straordinario punto di riferimento per coloro che mirano a vivere l’impegno quotidiano con uno sguardo rivolto a una meta più alta. D’altronde, come lui stesso ci ricorda:
«Alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili».

Miriam Millaci

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