Un uomo di spalle, con un camice bianco, avanza tra le macerie verso un carro armato. È questa l’ultima immagine che abbiamo del dottor Hussam Abu Safiya. Ora queste immagini stanno facendo il giro del mondo, mentre migliaia di persone, da ogni angolo del pianeta, chiedono a gran voce la sua immediata scarcerazione.

Le prime notizie, riportate da due ostaggi palestinesi rilasciati alcune settimane fa, sembrano confermare che il medico sia tuttora detenuto nella prigione di Sde Taiman, una base situata nel deserto del Negev. Più volte questa prigione è finita sotto i riflettori di inchieste condotte da media internazionali come CNN, MEE e il New York Times, che l’hanno identificata come un luogo di torture e terribili abusi contro i detenuti.

Anche l’organizzazione indipendente no-profit Euro-Med Human Rights Monitor, che si occupa di monitorare in particolare i territori sotto assedio, ha evidenziato come il medico fosse già stato torturato prima della sua deportazione nella prigione di Sde Taiman.

La testimonianza di un detenuto il quale si trovava nella stessa prigione, ha riferito che il medico ha subito un brutale pestaggio a sangue in un occhio. Una notizia che fa mettere ancora più in allarme ed in seria preoccupazione, soprattutto per le pregresse condizioni di salute del medico che a novembre era già stato gravemente ferito nella sua gamba sinistra a causa di alcune schegge, in seguito ad un attacco di un drone israeliano.

Ora il mondo intero è testimone di un uomo che, fino all’ultimo istante, ha lavorato instancabilmente, lottando contro tutto e tutti. Un medico che, in questi quindici mesi di inferno, non ha mai smesso, tramite i suoi video, di lanciare appelli affinché il suo ospedale non fosse più bersagliato dai continui raid militari, sollecitando tutte le organizzazioni umanitarie a fornire gli aiuti necessari per garantire la sopravvivenza della struttura e dei suoi pazienti.

In questi mesi, la volontà di questo medico di rimanere nel suo ospedale e di aiutare quante più persone possibili non ha mai conosciuto alcun tentennamento, nemmeno quel 26 ottobre scorso, quando, dopo aver disobbedito all’ennesimo ordine di lasciare l’ospedale, ha dovuto affrontare la terribile perdita del suo amato figlio, Ibrahim, di 21 anni, ucciso a pochi passi dall’ingresso della struttura.

Era stato lo stesso dottor Safiya, pochi istanti dopo la morte del figlio, ad affermare che si trattava di una palese ritorsione per non aver abbandonato il suo ospedale. Ancora oggi, in rete, è possibile vedere uno straziante video del giorno del funerale: il medico recita la Salatul Janazah, la preghiera funebre musulmana, con ai piedi il corpo senza vita di suo figlio, avvolto in un candido lenzuolo bianco. Alla fine della cerimonia funebre, in un cimitero improvvisato alle spalle dell’ospedale, il dottor Safiya si recherà a seppellire suo figlio.

Un padre che, dopo aver perso in modo così tragico il proprio figlio, ritorna al lavoro rappresenta una delle più grandi lezioni di umanità che quest’uomo potesse trasmetterci. Ancora di più, il suo gesto eroico suona come uno schiaffo per quei “signori della guerra” che, con tutta la loro violenza, prepotenza e arroganza, credono di poter avvelenare negli uomini sentimenti di pietas umana: la compassione e l’abnegazione verso il prossimo. Valori che non hanno prezzo sul mercato, che né si vendono né si comprano, ma si guadagnano ogni giorno, talvolta anche al costo di rinunciare e ignorare persino il proprio dolore. Proprio come, in questi mesi, il nostro medico eroe ci ha insegnato a fare.

Miriam Millaci

Lascia un commento

In voga