
Era già da un po’ di tempo che, per un motivo o per un altro, avevo rinviato questa visita. Ma sapevo anche che si trattava solo di un appuntamento posticipato, che prima o poi avrei dovuto assolutamente onorare.
Sicuramente non ho scelto il mese migliore. Ad agosto, il caldo in Sicilia si fa sentire, e anche molto. D’altronde, la distanza che separa la nostra isola dalle coste africane non è poi così tanta.
Ad ogni modo, non mi lascio scoraggiare. Per questa speciale giornata, avevo deciso di coinvolgere anche una mia amica che, incuriosita, aveva accettato il mio invito. Così, di prima mattina, saliamo sul bus che da Caltanissetta ci porterà a Palermo.
Una settimana prima, avevo contattato Marco Panebianco, membro della “Fondazione Onlus Progetto Legalità”, confermando la mia presenza e quella della mia amica. Avevo anche chiesto se fosse prevista la presenza di Giovanni Paparcuri, ma con dispiacere ho appreso che ha lasciato la guida del bunkerino nel 2022.
Arrivate alla stazione di Palermo, mi affido alla mia amica, che conosce bene la città perché ci ha vissuto negli anni dell’università.
Così, dopo aver attraversato il vibrante mercato di Ballarò e del Capo, immersi nei suoi colori, nei profumi e nelle voci coinvolgenti, arriviamo davanti al Palazzo di Giustizia. Superati i controlli di sicurezza, ci raduniamo nell’atrio del palazzo, dove al centro è installata una scultura bronzea dedicata a tutti i caduti della giustizia.
Aspettiamo un po’ e, dopo circa un’ora, tutto il gruppo viene radunato per iniziare la visita. Insieme alla guida, ci dirigiamo al piano ammezzato, dove si trovano le stanze dei giudici. Prima di entrare, Andrea Panebianco ci fa una breve introduzione sulla storia del bunkerino.
Entrando nella prima stanza, si percepiscono subito le dimensioni ridotte di questi luoghi. Qui sono esposte tutte le attrezzature informatiche utilizzate per l’informatizzazione del maxi processo.
Il 29 luglio 1983, l’autista di Rocco Chinnici, Giovanni Paparcuri, sopravvive miracolosamente all’attentato dinamitardo in via Giuseppe Pipitone, in cui persero la vita Chinnici, il maresciallo Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi.
Dopo l’attentato, Paparcuri, a causa delle gravi ferite riportate, rimase in convalescenza per circa un anno e, al suo rientro, non gli fu più possibile riprendere il suo precedente incarico di autista di scorta. Fu in quel periodo di difficoltà che il giudice Borsellino, conoscendo la sua passione per l’informatica, gli affidò il delicato e importante compito di modernizzare l’ufficio e digitalizzare i fascicoli.
Grazie al sapiente lavoro di Paparcuri, si arrivò alla creazione della prima banca dati informatizzata della magistratura italiana.
Le attrezzature che oggi ci sembrano esageratamente ingombranti, a quel tempo furono indispensabili per velocizzare il lavoro del maxi processo.
La stanza attigua è quella del giudice Falcone. Lì troviamo ancora la sua scrivania e poltrona originali.
Sulla scrivania sono disposti alcuni documenti, tra cui copie del celebre rapporto giudiziario “dei 161”, le dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta e altri materiali legati al maxi processo. Ci sono anche verbali di interrogatori, appunti manoscritti e annotazioni personali, che rivelano il metodo rigoroso e analitico di Falcone. E poi, le sue paperelle di legno: una passione.
Il racconto di Andrea è scandito anche da simpatici aneddoti che ci ricordano il lato umano e ironico di Borsellino.
Pare che Giovanni Falcone tenesse molto alla sua collezione di paperelle, e che Paolo, per scherzo, ogni tanto ne rubasse qualcuna dalla scrivania della sua stanza, lasciando poi un biglietto: “Se la papera vuoi trovare, cinquemila lire devi lasciare.”
In una teca sono esposti assegni circolari, fondamentali per ricostruire i legami tra mafia, banche, imprenditori e politici: il celebre metodo Follow the money. Accanto, una macchina da scrivere Olivetti con ancora inserito un foglio di un mandato di cattura.
Proseguendo lungo il corridoio, entriamo in uno stanzino colmo di “carpette”: migliaia di fascicoli contenenti le copie delle prove del maxi processo. Gli originali sono custoditi nel carcere dell’Ucciardone.
L’ultima stanza, in fondo al bunkerino, è quella di Paolo Borsellino. Lì lavorò fino al 1986, anno in cui fu nominato Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala.
Molti degli oggetti presenti nella sua stanza sono stati donati dai figli di Paolo: la macchina da scrivere elettrica, il tocco — il cappello cerimoniale dei magistrati — lo stesso che indossò il giorno del funerale di Falcone.
Su una parete della stanza sono incorniciati, in successione, i fogli di una lettera che Paolo Borsellino iniziò a scrivere la mattina del 19 luglio. Alle cinque di pomeriggio di quello stesso giorno, viene ucciso da un’autobomba davanti alla casa di sua madre, in via D’Amelio n. 19.
La lettera in questione era la replica a un’altra, precedente, scritta da una studentessa di un liceo di Padova, che riprendeva a tono il giudice per non essersi presentato al suo invito. L’invito era volto a partecipare a un incontro scolastico sulla legalità. Il giudice non ignora la sua lettera, ma anzi, scherzosamente, si dichiara anche “pentito” per non aver potuto essere presente in quell’occasione.
Quella lettera, quel giorno, rimase a metà: infatti, lo stesso pomeriggio, alle cinque, lui viene ucciso da un’autobomba davanti al palazzo della madre, in via D’Amelio n. 19.
La nostra visita si chiude con i ringraziamenti ad Andrea Panebianco per averci accompagnato.
Mentre lascio il bunkerino, vedo la gente commossa andare via, e mi tornano alla mente le parole che tu, Giovanni, avevi detto: “Le idee camminano sulle gambe di altri uomini.”
Sì, adesso possiamo dirti che avevi ragione.

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